Testi dal catalogo
Negazione 2008-2025
2025
Negazione,
Le Negazioni >
di Andrea FranZosi
Negazioni >
di Manuela Bonadeo
Qualità & Sostanza o Qualità O Sostanza? >
di Walter Massa
Negazione, Le Negazioni
Andrea FranZosi
Nel moltiplicarsi esponenziale della nostra immagine, complice l’autovippismo innescato e foraggiato dai social network, Negarsi è un atto Positivo: negarsi significa riappropriarsi del proprio tempo, del proprio spazio, concedersi di perdersi nel flusso di sfondo, per Riordinare e Ripartire.
Le presenze di questa serie sono determinate e sicure di sé, non fuggono il confronto con il mondo; semplicemente, preferiscono concedersi il diritto di sottrarsi momentaneamente al caos e alla sovraesposizione quotidiani astraendosi ed “evaporando” nel proprio mondo interiore.
L’ossessività emanata dall’insieme dei frammenti vuole restituire quella che percepisco scrollando le gallerie di selfie (m’infastidisce la sola parola) compulsivi nei feed dei social network, infinitamente uguali tra loro, livellanti e insapori, che spesso mi paiono voler luccicare come disperatissime pellicole pubbliche applicate su dolorose lacune private.
Ho dunque pensato a una pannellatura ritmata e compatta di figure che negano il contatto visivo con l’osservatore, annullando uno dei presunti cardini sociali, la riconoscibilità a tutti i costi della propria persona.
Figure in mostra che non vogliono mostrarsi, riassumendo.
Quanto scritto fin qua é la sintesi degli input iniziali che, raccordandosi tra loro prima, e con nuove prospettive subentrate lungo gli anni poi, mi hanno portato a ideare e sviluppare Negazione.
Il testo critico di Manuela Bonadeo -perspicace quanto incisivo, capace di portare in superficie aspetti tecnici e implicazioni teoriche- mi offre in questa sede la liberà di presentare solo alcune considerazioni personali a proposito del processo di ideazione e realizzazione di questo ciclo di tele e delle installazioni conseguenti.
Seppur anticipato dalla professoressa Bonadeo, il punto su cui vorrei esprimermi in primis è il presunto riferimento delle Negazioni al tema della violenza di genere, data la delicatezza dell’argomento e il dramma che lo avvolge.
Considerando la frequenza con cui questo tema ritorna in ogni occasione in cui mi confronto sulle Negazioni con altre persone -siano amici di lunga data o pubblico occasionale- mi pare necessario chiarire che nelle mie intenzioni le figure ritratte nelle tele non sono “vittime”, non esprimono né ho voluto rappresentare -almeno in questo ciclo di opere- atteggiamenti difensivi o sottomessi, o in generale la terrificante barbarie che ancora si ripete con indegna cadenza.
Viceversa, ho sempre chiesto alle amiche in posa di assumere portamenti decisi e autorevoli, di mostrarsi impettite e fiere, di mantenere la schiena dritta avanzando con passo determinato, sicure di sé. In alcuni dei quadri si riesce a scorgere un accenno di sorriso, addirittura qualche piega sprezzante o sarcastica delle labbra.
“Sei spaccona ma giusta, tipo Mr. T! ” ripeto spesso durante i set di pose; “Tu (=il tuo Tempo, il tuo Spazio) sei preziosa”, “Non inflazioni la diffusione del tuo Viso (=Te Stessa, la tua Storia), la amministri secondo il suo Valore”, “Chi ti sta attorno deve sudarsi la possibilità di ottenere il contatto visivo con te (=accedere alla tua Attenzione, Concentrazione, Talento)” le frasi che più frequentemente ricorrono, per spiegare il tipo di atteggiamento che vorrei trasparisse dai quadri.
Certo, tra le varie posizioni e inquadrature possibili per inscenare l’occultamento del viso, l’impedimento dello sguardo, molte rischiano di creare questo equivoco, suggerendo una situazione di prevaricazione in sottofondo -complici anche le decine di tele dipinte a toni cupi, o con tecniche selvagge e “violente”- per cui mi pare onesto quanto necessario ribadire quale sia stata la chiave di lettura che ha innescato il progetto.
Le tele che compongono Negazione
Composizioni digitali e installazioni
Catalogo antologico delle prime 125 tele
installazione musicale dei Mrs. Carril ispirata da Negazione
aggiornamenti su esposizioni, nuove tele e pubblicazioni
Qualora servisse specificarlo, sono ovviamente disgustato da qualsiasi forma di prepotenza e sopraffazione, soprattutto quando inflitte a chi non può difendersi; la violenza contro le donne mi manda particolarmente in bestia, è una vergogna cavernicola inaccettabile. Tuttavia non è quello l’innesco o la chiave di Negazione.
Dopodiché, come frequentemente ci si ripete, le opere smettono di essere monopolio degli autori nel momento in cui vengono rese pubbliche, e da quell’istante in poi chiunque le osservi è libero di capirle e interpretarle secondo la propria sensibilità, il proprio vissuto, i propri filtri.
Premesso ciò, proprio per tale interpretazione le Negazioni mi sono state chieste in diverse occasioni per esposizioni, aste benefiche, materiali comunicativi e altre iniziative promosse da Associazioni che si occupano del tema e, ovviamente, sono sempre felice di poter contribuire con i miei lavori a finalità tanto nobili, che si tratti di Negazioni, Spaesamenti o qualsiasi altra serie di quadri o illustrazioni tra quelle in cui mi arrabatto.
Le pose interpretate dalle modelle (che qua mi pare più appropriato definire attrici) sono dunque per estensione l’espediente visivo che ho individuato per rappresentare la determinazione necessaria a opporsi alla frastornante corrente quotidiana di eventi grandi e piccoli, abitudini, vincoli, tic e routine che ci assorbono e risucchiano come gorghi. Si giunge così al secondo step del ragionamento, l’allargamento del punto di vista dal martellamento dei selfie a dinamiche sociali generali -o quantomeno la mia timida interpretazione di esse.
Da tutto ciò deriva la conseguenza diretta che le Negazioni non sono una serie sulla Donna o sulla figura femminile: le Negazioni mirano a rappresentare alcuni concetti, a partire da una necessità che può riguardare chiunque, indipendentemente da qualsiasi categorizzazione: il bisogno (temporaneo, ma irrimandabile) di “evaporare”, astrarsi dal flusso di vincoli imposti e impegni eterodiretti, al di fuori del nostro controllo, che ci assediano quotidianamente.
A bozzetti avviati, ne emerse subito il limite: un ciclo più o meno esteso di singole opere non mi pareva potesse rendere la sensazione che volevo trasmettere, il senso di vacuità dei muri di selfie, e più in generale la percezione di una sorta di assedio morbido di vincoli e obblighi sociali in cui ci troviamo a scimmiottare automaticamente comportamenti altrui.
Vi lascio immaginare il mio atteggiamento generale verso mode, trend e tic che ciclicamente fotocopiano chi non ne resiste in legioni di cloni.
Lo spunto della serie, dunque, è stata la mia idiosincrasia per i selfie, o meglio, per il passivo automatismo con cui, sin dai primi social network, milioni di utenti hanno tappezzato le proprie bacheche con fiumi di autoscatti (autoscatti!), cosa assolutamente normale e lecita, non discuto!
A proposito, mi scuso sin d’ora per l’intemerata da vecchio brontolone in eterna polemica con i giovani che seguirà. Mi sono rassegnato, io SONO un vecchio brontolone ecc ecc, praticamente da quand’ero bambino, e nei fatti tutto il processo di Negazione è frutto di questa mia seccante attitudine.
Dicevo, dunque, che non è stata tanto l’abitudine a scattarsi foto e a pubblicarle a “infastidirmi” -e già qua varrebbe la Sacra Regola del Se ti infastidisce, ignoralo che ipocritamente rivolgo ai bacchettoni intolleranti, quando pensano di potersi arrogare il diritto di metter becco nelle scelte e nelle abitudini altrui- quanto l’automatica martellante ripetizione dello stesso soggetto, senza particolari variazioni sul tema -se escludiamo l’ampio catalogo di espressioni affettate e ammiccamenti vari mutuati dai trend della rete e moltiplicati all’infinito in una centrifuga di clonazioni passive che si autoalimenta- senza neanche essere sfiorati da un velo d’autocoscienza quando si scorre la propria bacheca, senza notarne la monotematica moltiplicazione, senza mai provare il bisogno di inserire un elemento di trasformazione, senza essere sfiorati dalla curiosità di cambiare punto di vista, inquadratura, espressione o dettagli corollari.
Per quanto riguarda, invece, l’atto istintivo dello scattare compulsivamente foto a qualsiasi soggetto (o presunto tale) ci si pari davanti… beh, chi sono io per giudicare?
Come chiunque sia rimasto folgorato negli anni ‘90 dalla straordinaria Cultura dei Graffiti (anzi, dall’Aerosol Art, dal Writing), dai 14/15 anni in avanti sono stato accanito consumatore di pellicola fotografica e regolare frequentatore dello sviluppo rapido. Ogni lunedì pomeriggio (o quasi) mi presentavo al bancone del centro commerciale con il sudatissimo rullino contenente gli scatti delle imprese della nostra crew durante i week end, dai primi tentativi di usare uno spray (terribili e imbarazzanti, ma quanto m’inteneriscono riguardandoli quasi trent’anni dopo!) fino alle uscite più selvagge e soddisfacenti dei periodi seguenti. Probabilmente in quegli anni ho speso (i miei, hanno speso!) tanto per le fotografie quanto per le bombolette, se non di più.
Alla fine della decade/secolo/millennio, l’avvento delle fotocamere digitali ci ha finalmente liberati dai tempi e dai costi dello sviluppo, annullando ogni freno nello scattare foto (e girare video) praticamente a ciclo continuo, indipendente dall’”importanza” del soggetto inquadrato o dell’”indimenticabilità” del momento fissato (“volevo vedervi a scattare 100 foto alla pizza, ai tempi del rullino!” cit.)
In effetti, però, il quadro era ben più ampio, e dal mio pedante punto di vista alquanto scoraggiante:
quelli erano i tempi in cui -dopo aver scaldato i motori per una ventina d’anni- deflagrava e si affermava un nuovo approccio alla diffusione della propria immagine, grazie a rinnovate dinamiche mediatiche prima, attraverso canali comunicativi completamente autogestiti subito dopo.
Volendomi (e volendovi) evitare le eterne valutazioni circa il berlusconismo e il suo canceroso influsso sulla cultura italiana -ancor oggi sdegnosamente respinte da chi in quella cultura ha prosperato- mi limito a ricordare l’esplosione di inizio 2000 di programmi mirati a porre “la persona qualunque” al centro della scena, per produrre vipparoli e “famosi” a vario titolo pescandoli dalle infinite schiere di aspiranti personaggi accalcati alle porte dorate dello star system.
Resto affezionato alla Corrida di Corrado per anagrafe (già detto di esser nato vecchio) e per la squisita spontaneità di partecipanti e pubblico, per la semplicità domestica di quel programma, ma mi bastano pochi secondi di un qualunque fighetto con i risvoltini chiuso a blaterare in una casa o abbandonato su un’isola a fingere normalità per sentirmi contemporaneamente offeso, sprezzante e trattato da idiota.
Neppure mi taccio sui talent in cui -spinti da giusta e comprensibile brama di affermazione, spesso attrezzati artisticamente e tecnicamente in maniere molto più solide e professionali dei “colleghi” da reality- i partecipanti finiscono semplicemente per essere pacchettizzati in base ai riscontri di pubblico e televoto, in una proliferazione esponenziale di prodotti da classifica, insulsaggini riempitive da sostituire in radio ad ogni cambio di stagione. Ho sempre odiato la musica di plastica, le band costruite a tavolino, il ritornello scemo, buono giusto per essere canticchiato in piscina o al bancomat.
Arrivo ad affermare addirittura che le insulse boy band degli anni precedenti avessero molta più dignità: i produttori le costruivano artificialmente, ma almeno correvano il rischio d’impresa lanciando alla cieca -o quasi- le loro creature di laboratorio; il talent risparmia loro anche quel “brivido”, poichè struttura direttamente le cavie sui riscontri diretti dei consumatori, aspirandone genuinità, creatività, istintualità.
Quello che ne esce non è Musica, non è Creatività, quelli non sono Gruppi; tuttalpiù, sono il risultato di un focus group.
Si arriva così al fronte web -anzi, al passaggio epocale definito sin da subito come web 2.0: un mix di nuove possibilità infrastrutturali -connessioni sempre più veloci, evoluzione dei linguaggi di programmazione, hardware sempre più evoluto e connesso, smartphone, ecc…- che hanno reso possibili nuove frontiere nell’interazione utente/server e utente/utente, aprendo a un’infinità di possibilità tecniche nello sviluppo di siti, piattaforme e soprattutto dei social network.
L’accesso orizzontale e democratico alla rete e alle sue risorse, forte delle dinamiche di diffusione virale dei contenuti, ha indubbiamente permesso, agevolato e amplificato la nascita e il successo di artisti, studiosi, scienziati, liberi pensatori di indubbio valore, finalmente liberi di potersi presentare al pubblico -anzi, rivoluzione!, di potersi presentare al proprio pubblico, in maniera mirata, senza più l’inevitabile mediazione di canali spesso inaccessibili quali agenzie, manager, aziende. Dopodichè, come il buon Eco ebbe a riassumere tempo fa, mentre favorisce e semplifica la diffusione di cultura e conoscenze prima difficilmente consultabili, internet ci presenta quotidianamente il conto con diversi rovesci della medaglia, pensando agli esempi disponibili tra vari complottismi, la diffusione di false notizie, i tentativi sempre più raffinati di riscrittura della Storia (in storia), la manipolazione dei flussi elettorali, ecc.
Tornando alle Negazioni, più procedevo sommando i temi più mi rendevo conto del fatto che prendere di mira la semplice consuetudine del selfie non fosse un innesco così imprescindibile da dedicargli un piano più strutturato di qualche illustrazione in chiave ironica. Le tappezzerie di selfie mi suggerivano un approccio più espanso, che riflettesse e rispondesse in maniera più organica all’insieme di stimoli e tensioni che mi parevano (e ancora paiono, con i dovuti aggiornamenti) vibrare nell’aria.
Inoltre a quei tempi avevo ancora un approccio molto più leggero e ironico verso l’intero discorso, la serietà sottesa dalle prime tele cozzava con la spiegazione sintetica che ne fornivo all’inizio: “i selfie a ripetizione hanno lo stesso senso del calendario di Zoolander!” -per chi ricorda il film (perdonate la similitudine, in fondo questa é la mia base culturale).
Dunque, le Negazioni sono antiritratti; risposta immediata e ripetitiva agli immediati e ripetitivi autoscatti, sostenuti da un atteggiamento a tratti critico, a tratti ironico. Le singole tele, mentre rappresentano didascalicamente il negarsi alla fruizione libera di noi stessi da parte degli altri, portano in sé il negarsi alle logiche sbrigative e uniformanti della vita quotidiana (diventata comunicazione fluida) e della comunicazione fluida (diventata vita quotidiana), per proporre una prospettiva opposta. Forse avrei dovuto premetterlo in radice: non ho mai avuto la presunzione di aver individuato dinamiche particolarmente arcane o inedite. Ho solo sentito la necessità di segnalare la percezione di un disagio, prendendone le distanze, costruendoci un discorso. Cadenzato in (almeno) 250 tele.
Ma a questo sono arrivato in un secondo momento.
Negazione
Per rendere meglio l’idea del mio coinvolgimento in queste dinamiche, mi preme citare l’occasione che mi ha definitivamente instradato verso Negazione: si era tra 2007 e 2008, partita iva aperta da meno di un anno, novellino tra grafica e web design ma gà in attività da un paio d’anni, prima a livello sottosottoterra, poi in stage (divenuto collaborazione durata anni) nell’agenzia di comunicazione di Piero Mega. Iniziavo comunque a misurarmi con i primi lavori impegnativi, e già si intuivano le dinamiche di questa/e professione/i: ritmi folli, maratone ininterrotte al monitor di notti e giorni, feriali festivi e altri concetti novecenteschi cancellati dalla smodata voglia di imparare più cose possibili mentre ti sventri per produrre al meglio gli elaborati richiesti dai clienti. E, dettaglio marginale, alla fine di (quasi) ogni incarico restava quasi sempre la parte dura del lavoro: portare a casa i quattro spicci concordati a fatica per quelle sessioni, lesive per il fisico e il sistema nervoso.
Non ricordo il periodo dell’anno o quale parte di lavoro stessi concludendo, ricordo solo il tasso di spossatezza, l’alienazione da chilometri di css (o qualsiasi altra fosse la ciccia di quell’incarico) scritti, corretti, riscritti, la cattiveria acida che ormai neanche provavo più a dissimulare nei confronti del cliente di turno, la sfacciataggine -addirittura superiore alla media, a beneficio di chi conosce quelle dinamiche- con cui ormai lo stesso pretendeva modifiche e integrazioni 7/24 (senza ovviamente possedere le basilari competenze per poter notare/valutare/correggere quanto pretendeva, o apprezzare i salti mortali necessari a non accontentarlo).
Da giorni non uscivo di casa, mi limitavo a transumare
dal tavolo al divano per qualche ora di riposo (=perdita dei sensi); sarebbe bastato appuntarmi l’elenco dei pasti saltati, le occasioni perse in quel (relativamente) breve periodo con parenti, amici, graffiti, libri, cinema, fumetti, ariaperta, finesettimana, mare monti sagre festedellabirra (e compagnia) per poter prevedere al millimetro la vita degli anni a venire. Prima di esser tacciato di vittimismo tengo a precisare che questa è la fredda cronaca quotidiana della vita di decine di migliaia di persone, so bene di non essere né Stachanov né l’agnello sacrificale immolato sull’Altare della Libera Professione. Me la son cercata, l’andazzo si conosceva da prima di iniziare, e comunque non si trattava certamente di cardiochirurgia; ho ben presenti le proporzioni di scala tra l’attività che volevo a tutti i costi (e adoro) svolgere rispetto alle Cose Serie del Mondo. Però, cazzo, ci si massacra lo stesso.
Sta di fatto che -verso la fine di quella maratona- avevo sancito di aver superato il punto critico e di essermi guadagnato il top benefit di un raid al bar vicino casa, più per compensare il debito di sole e aria fresca che per il (milionesimo) caffè della giornata. Per contestualizzare, in quel periodo l’iPhone era in circolazione da meno di un anno, avevo aperto la pagina Facbook pochi mesi prima (comunque in ritardo di parecchio rispetto a parenti e amici); le dinamiche social che oggi sono ordinarie e scontate in quel periodo erano in via di definizione; io, pur lavorando quasi esclusivamente a siti web, ne ero quasi completamente all’oscuro. Perchè, ovviamente, disinteressato.
Mi trovavo dunque al bancone da forse 5 minuti, perso in trance nel fondo della tazzina, cercando in tasca la voglia per tornare davanti al monitor e riprendere le correzioni finali, quando il cellulare iniziò a vibrare (seguitemi nel mio ricordo romanzato, immaginatelo come il telefono di Paperino che saltella quando Zio Paperone chiama imbufalito – sempre a proposito di basi culturali). Era, ovviamente, il Cliente Mannaro, in preda ad Altissima Collera e Furiosissimo Sdegno, sommamente oltraggiato dal fatto che fossi al bar a cazzeggiare invece che a fareccetereccetra.
Altra contestualizzazione inevitabile: ho acquistato il mio primo smartphone verso il 2019, fino ad allora sono stato un felice e convinto utilizzatore di cellulari con i pulsanti, rigorosamente disconnessi dalla rete (anzi, praticamente non collegabili) proprio perchè -facendomi rosicchiare l’esistenza da internet (=i lavori di webdesign a ciclo continuo, le mail e le altre forme di messaggistica istantanea mai stanche di eruttare richieste per lavori, modifiche, collaborazioni, scansioni scroccate ecc)- nei momenti in cui potevo finalmente spegnere il computer esigevo che tutta quella cacofonìa incalzante tacesse, completamente. Per un po’, almeno.
Credo che nonostante le evoluzioni di questi anni si possa ancora comprendere lo spaesamento che mi prese, già appannato dal poco sonno, scoprendomi sgamato nel primo momento di pausa -peraltro lecitissima, partita iva, zio!- dopo giorni di lavoro ininterrotto, da una persona che si trovava a decine di chilometri di distanza, senza particolari frequentazioni nella città in cui abito. Cosa ancora più sconcertante, la telefonata era stata pressochè istantanea, quasi sincronizzata con l’ultimo sorso del caffè.
L’arcano fu svelato in poche battute: nello stesso locale alcune amiche si stavano scattando delle foto, pubblicandole direttamente su Facebook. Poichè comparivo sullo sfondo, mi avevano taggato nelle immagini (a quel punto decisi di prendere confidenza con le impostazioni privacy del portale, a saperlo prima forse non avrei fatto Negazione), così lo Zar di Tutti i Siti mi aveva visto apparire nel feed dal suo ufficio, e prontamente aveva voluto infliggermi dimostrazione della sua scaltrezza, a cui mai sarei potuto sfuggire. Credo comunque di averlo mandato a strafarsi fottere dopo pochi giorni, cancellato i files di lavorazione dal (mio) server, smenato quasi tutto il compenso e riciclato il sito che stavo sviluppando per lui almeno una decina di volte. Che vita, fiœi.
Questo piccolo episodio mi aveva messo di fronte a una delle migliaia di implicazioni legate a una vita che progressivamente sarebbe diventata sempre più connessa. Implicazioni che si sommavano, si sovrascrivevano ed evolvevano in direzioni troppo imprevedibili per poterle valutare. E le Negazioni, considerate come singole tele, semplicemente non potevano assolvere il compito di trasmettere quel magma asfissiante ed ipnotico che il Nuovo Mondo Connesso stava presentando.
La nota ansiosa e l’atmosfera opprimente erano previste sin dai primi due set progettati (Negazione 01 e Negazione 04). La prima idea era di dipingere alcune tele in serie, metà in scala di nero -in cui la figura veniva completamente (o quasi) assorbita nel buio dello sfondo, l’altra metà giocando con i bianchi -in cui la modella era invece investita da luce assoluta, evaporando nella solarizzazione.
A quel punto, il passaggio successivo era ovvio: incrementare il numero di tele in modo da poterle aggregare in fitte nuvole pulsanti di inquadrature simili tra loro, frammenti di uno specchio incrinato che restituisce decine di istanti quasi identici, in cui le modelle insistono con angosciante ripetitività nel rifiuto dello sguardo dell’osservatore, imitando l’impatto visivo delle gallerie di selfie come pensato all’inizio, ma senza focalizzarmi esclusivamente sull’atto fine a se stesso, mirando a trasmettere un senso diffuso d’inquietudine.

Trattandosi di pratiche quotidiane e ripetute ciclicamente nei diversi lavori di grafica, caricai meccanicamente le prime foto delle tele concluse nell’impaginatore, e simulai alcune possibili soluzioni compositive, duplicando le poche immagini disponibili per rendere sempre più “dense” le nuvole.
Questi primi esperimenti mi stimolarono a proseguire nella produzione di quei quadri, e fu naturale rinominarle da Cloud (come il file in costante evoluzione in cui assemblo le nuove foto, man mano che le concludo) a Negazione.
Se le Negazioni sono i quadri, le tessere del puzzle, Negazione è l’opera generale. Sono, l’opera generale, poichè la prospettiva è sempre stata quella di sviluppare una serie potenzialmente infinita di opere digitali, assemblando in diverse modalità le immagini.
Note tecniche
La prima considerazione derivata da questo cambio di approccio fu che sarebbero servite numerose tele per disporre della maggior libertà compositiva possibile, tra inquadrature, pose, movimenti e differenti rese pittoriche.
Decisi che ne avrei dipinte 250, stabilendo il numero tra il serio e il faceto.
La seconda -e qua iniziarono a palesarsi le prime criticità del progetto- fu che l’opzione digitale sarebbe stata pressochè obbligata, visti i limiti logistici nel disporre in uno spazio fisico numerosi quadri che misuravano 60×150 cm. ciascuno.
Ovviai al problema decidendo una riduzione in scala delle dimensioni, cosa che avrebbe reso più sostenibile l’intero processo produttivo; costruisco personalmente i telai e preparo le tele di quasi tutta la serie -a parte alcune Small, il cui formato (30×90 cm.) è casualmente disponibile in commercio pronto per l’uso… ma di casualità si parla più avanti.
Un altro aspetto tecnico che è stato necessario rivalutare, per mantenere coerenti tra di loro le tele nel tempo, è stato l’utilizzo dei colori a olio: per quanto estremamente piacevoli da stendere e sfumare, il loro utilizzo comporta tempi d’essiccazione lunghi, poco pratici se non si dispone di molto tempo per operare sulle tele -valga il riepilogo precedente sui ritmi di vita e lavoro per suggerire quanto sia complicato applicarsi con continuità su un set di quadri simile.
Spoiler: non è complicato, è solo eterno. Difatti -dopo circa 17 anni- è solo grazie alla preparazione dell’esposizione di Garbagna se sono giunto a una quota significativa del percorso, con la conseguente opportunità, finalmente, di poter comporre con discreta libertà diverse elaborazioni di Negazione.
L’olio ha così progressivamente lasciato spazio all’acrilico (posto che sin dalle prime Negazioni la base tonale è sempre stata acrilica), steso con tecniche, effetti e diluizioni diverse, ricercando la maggior variazione possibile nella ripetitività dei soggetti.

Sfogliando queste pagine appare evidente che il piano delle tele solo bianche o nere è stato rapidamente superato: era necessario (inevitabile) introdurre il Colore, i Colori. Senza l’aspetto cromatico, senza la libertà di miscelare e cercare combinazioni e tecniche diverse, muovere fondi, cercare effetti diversi, presto la propulsione iniziale si sarebbe indebolita; per rinnovare ciclicamente lo slancio (e la voglia, diciamolo pure) di avviare nuove tele mi serviva un approccio ai limiti del ludico, riportare la pratica delle colorazioni in serie e la scelta di tinte e colorazioni alle consuetudini del Writing, quando si associano i colori degli spray a disposizione ai vari elementi del pezzo che si sta dipingendo (“con ‘sti viola in scala faccio l’interno, poi ci butto il contrasto col giallo e gli outline col nero ecc…”)
Il “divertimento” nel dipingere le Negazioni non è solo un auto incentivo per procedere regolarmente con i quadri, per non “perdere il ritmo” e arenarmi; mi serviva -e continua a servirmi- un segmento “di sfogo”, in cui lasciar viaggiare pennellate e colature con totale libertà per bilanciare quello che di base è il mio approccio ai limiti dell’ossessivo ai disegni: martoriare tavole e tele di ripensamenti, definizioni, modifiche in corso d’opera… e poi milioni di dettagli più o meno microscopici sparsi e nascosti in giro per le tavole (penso soprattutto agli Spaesamenti).
Per me, chiudere un quadro in pochi giorni, o solo in poche ore è un evento raro.
Le Negazioni mi aiutano a tener presente che un dipinto o un’illustrazione non devono per forza essere frutto di centinaia di ore di fatiche e -diciamocelo- seghine mentali. A volte basta un accenno di tratti costruttivi e l’esplosività di un fondo steso a gavettoni d’acqua sporcata di colore per portare a casa una soddisfazione e un pavimento che renderà questo appartamento invendibile.
Intendiamoci: mi piace faticare e sgretolarmi sulle tavole sistema nervoso e cervicale, è il mio approccio automatico, il modo in cui disegno da quando ne ho memoria… Ma ogni tanto serve cambiare aria, dieta e registro, o la fatica stitica si mangia quella infuocata, quella bella cattiva e produttiva, e a quel punto anche le merendine smettono di sembrar buone (se vi piacciono le merendine; a me si, molto, di norma).
Piccola parentesi: da quando dipingo tele e illustrazioni in serie basate su pose con modelle, ho l’abitudine di regalare un pezzo di quelli per cui hanno posato per ringraziarle; non sempre i pezzi generati dalle pose riescono felicemente, ma nel caso delle Negazioni è capitato spesso che le amiche declinassero l’offerta: “Ti giuro, mi piace tantissimo, ma mi mette ansia!” il riassunto delle motivazioni.
La certificazione del fatto che stessi lavorando nella giusta direzione.
Il fatto che chi aveva posato per i quadri preferisse non riceverne uno per il disagio che lo stesso induceva si collegava a un aspetto non del tutto marginale: la possibilità di vendere qualche pezzo, e quindi sostenere i costi di produzione (quintali di listelli di legno, tele, gesso, colori, pennelli…)
Questa prospettiva, seppur valutata sin dalle premesse, non mi ha mai particolarmente disincentivato: Negazione mi aveva convinto abbastanza per investirci serenamente le risorse necessarie (se/quando disponibili), indipendentemente dalle sorti dei quadri.
In fondo, non c’è fretta di concluderla. Non mi corre dietro nessuno… Se escludiamo le idee che sto appuntandomi in queste settimane su due possibili serie che potrebbero (o forse no) comporre una sorta di trilogia. Ne parlerò con le gatte; se vi interessa sapere cosa decideremo, forniremo aggiornamenti.
Il Caso
Per quanto ritenga di aver perseguito e sviluppato i numerosi aspetti della serie con discreta coerenza e visione d’insieme -soprattutto se si considerano i tempi dilatati in cui avviavo e concludevo i vari cicli, l’ordine accidentale con cui abbozzavo alcune tele con il colore avanzato da altre, le varie difficoltà che hanno costellato questi anni- sarebbe stato ovviamente impossibile prevedere le diverse incursioni del Caso in Negazione. Il suo contributo, sempre intrigante, ha aggiunto un plus ludico all’intera fase di conclusione, catalogazione, impaginazione delle tele in questo catalogo; è dunque doveroso ringraziarlo per il suo apporto e citarne alcune manifestazioni.
La principale, la più evidente, è la disposizione delle opere tra le pagine del catalogo; certo, sono stato io a scandire le singole tele attribuendo a ciascuna la numerazione progressiva, ma il come/quando/con quali colori finali ho terminato i diversi quadri (se, li ho terminati) è stato appannaggio del Caso.
Di conseguenza, sono suoi ritmo e regia con cui le Negazioni sono impaginate in questo volume: ogni accostamento tra armonie, contrasti, pieni e vuoti, geometrie, movimenti e direzione delle pose -pur avendo tentato di raccogliere le opere riferite allo stesso numero identificativo (associato a ciascuna amica che ha posato) nella stessa pagina o coppia di pagine.
Le combinazioni casuali tra le opere sono evidenti a chiunque sfogli il volume, mentre restano invisibili i legami e rapporti reciproci di parentela, d’amicizia (o, al contrario, inimicizia) che intercorrono tra diverse interpreti, e che in quelle pagine si trovano casualmente a “muoversi” le une verso le altre o a “ignorarsi” platealmente, legate a volte dalle armonie cromatiche, altre opposte nell’antitesi dei contrasti.
Un altro fatto curioso offerto dal Caso è stata la quota delle 125 tele: fino alle fasi finali di impaginazione di questo volume mi è stato impossibile stimare quante Negazioni avrebbe effettivamente contenuto: in casa ne giravano circa un’ottantina in varie fasi di realizzazione -molte delle quali avrebbero composto il corpus dell’esposizione di Garbagna- altre erano concluse ma in coda per un’altra fase della produzione (quella che detesto maggiormente), ossia le fotografie a catena di montaggio (e conseguente ottimizzazione, ripulitura, catalogazione, disposizione nelle varie Negazione, ecc.).
L’unico dato certo erano le 68 tele concluse, pubblicate fino a quel momento nel sito.
Poco prima dell’avvio delle stampe, una notte, ho notato per caso il conteggio degli elementi contenuti nella cartella delle foto: 124. Ora, trattandosi di una sola unità al di sotto della metà dell’opera, sarebbe stato vergognoso non ultimare una delle tele più prossime alla conclusione per includerla nel volume, cosa fatta all’alba del giorno dopo.

Quindi:
Aver raggiunto il traguardo intermedio di questa maratona, vederla concretizzarsi nelle forme ideate molto tempo fa proprio nel 18° anno della mia derelitta partita iva dovrebbe essere listato appena prima, insieme alle sorpresine del Caso, ma credo sia un buono spunto per terminare, essendo esondato ben oltre le aspettative (e la decenza): se sono riuscito a chiudere almeno questo segmento di Negazione, dopo aver dilazionato le varie fasi della produzione nei rari momenti lasciati liberi dal lavoro, è stato perchè a mia volta ho deciso (ho potuto? sono riuscito?) di negarmi.
Nei mesi in cui ho dedicato -ineditamente, irripetibilmente, cocciutamente- la maggior parte del tempo alla Pittura e alla preparazione di mostra e catalogo -e non ai lavori a perdifiato, come è sempre stato dall’apertura della fatidica partita iva- ho dovuto rinunciare a una discreta quantità di occasioni, cosa messa in preventivo, inforcando purtroppo anche una serie di mancanze, errori e ritardi che hanno scatenato rancori e maledizioni a pioggia da parte di tante, troppe persone a cui non ho potuto dare l’attenzione necessaria. Mi scuso con tutte loro; assicuro a chi volesse ancora darmi credito che non prevedo nel breve periodo di scatenare altri deliri come Negazione; conto di riuscire a rimediare.
Ah, già, è vero, dimenticavo un particolare: negarsi è sano, liberatorio, giusto, ma ovviamente comporta conseguenze.
franZroom,
Maggio 2025

Negazioni
Manuela Bonadeo
Storica dell’Arte, curatrice dell’esposizione “Negazione. Negarsi è un Atto Positivo“.
Negarsi è un atto positivo. O meglio, negarsi è un atto positivo: lettura più efficace per antinomia, come insegnano le cancellature di certa Arte Povera.
E per antinomia nascono le sequenze negate di Andrea Franzosi, martellanti nel tempo e fedeli al soggetto, definite per ciò che non sono. Anche la loro interpretazione critica va pensata e scritta come se fosse barrata da una cancellatura, perché è più efficace definirle leggendole in controluce, come il negativo – appunto – di una pellicola fotografica.
Cosa non sono le Negazioni
Le Negazioni non sono un’interpretazione pittorica del dramma della violenza sulle donne, non sono una denuncia.
La figura femminile che domina la tela in una varietà insistita di dimensioni, colori e posizioni non si copre per proteggersi o per nascondersi. C’è, ma si nega oscurando il proprio volto. E diventa un atto positivo, con l’effetto che fa questa scrittura: ciò che è visibilmente cancellato assume un’inattesa evidenza.
Cosa sono le Negazioni
Un concetto, generato per opposizione: l’ipertrofia visiva della comunicazione social schianta sulla retina di chi scorre la galleria di un profilo immagini di fatto molto simili su cui troneggia sempre il volto, sempre lo stesso ma diversamente protagonista. Sembra un automatismo comunicativo: chi dice di sé su una pagina social, lo fa scorrendo la propria vita in scatti e autoscatti, la cui ripetitività potenzialmente senza limiti non fa che smorzare di energia l’immagine e il suo sottotesto. Franzosi cavalca la medesima ossessione ma al contrario: le Negazioni sono anti-selfie, sono gallerie ripetitive di immagini femminili che negano la visione del proprio volto.
Da vedere in sequenza sono martellanti quanto le bacheche social, è il loro obiettivo.
La linea del tempo è lunga (2008-2025, per ora), i numeri importanti (125, per ora). Il risultato certo: con lo stesso meccanismo della comunicazione da app e con lo stesso ipertrofico compiacimento del sé, le Negazioni centrano lo scopo di guidare a riappropriarsi proprio del sé attraverso l’annebbiamento della visibilità e non senza l’utile esercizio del percorso introspettivo. “Non lascio vedere il volto e nello stesso tempo cerco di vedere altro in me”: nascondersi per meglio riconoscersi.
Nelle Negazioni il potere della pittura è sorprendente: Andrea Franzosi diventa una sorta di demiurgo che ricrea il soggetto ad una nuova perspicuità nel momento stesso in cui il soggetto si nasconde. Sopraffatta dal colore e da una compulsiva ripetitività, la figura femminile produce come effetto l’astrazione della propria immagine dal contesto di quel quotidiano che altrove racconta come cronaca.
La costruzione dell’opera sa di antico, di accademico nella preparazione del supporto e del colore, inizialmente ad olio prima di spaziare ad altre tecniche, e nella definizione sapiente delle forme riprese dal vero in posa in un gioco continuo di variazioni cromatiche e di pose: le figure si coprono sempre il viso ma lo fanno in un’insistita variazione di gesti. Braccia sugli occhi, mani sulle gote, gomiti a chiudere la fronte. Eppure non per questo viene meno la loro riconoscibilità dal momento che a negarsi non è la persona, ma il compiacimento dell’autovippismo che impone ossessivamente il proprio volto.
La compulsiva ripetitività delle figure si coagula in tele seriali che rappresentano la stessa modella: nominate come file nel computer, diventano Negazione 1.1, 1.2, 1.3, e poi 2.1, 2.2, 2.3 e poi 3.1, 3.2 fino a contarne 125.
Per ora: l’obiettivo prefissato era e rimane di 250 tessere. Resta invariata e spiccata la verticalità del supporto, cambiano il colore e le dimensioni ma non al cambio di modella: ognuna, infatti, ha una sua sequenza “negata” riconoscibile dal colore, scelto perché l’artista giudica che le appartenga e si accordi anche al suo modo di essere, al suo spazio sociale o al suo ruolo professionale. Fatto che non esclude improvvise inversioni di scala cromatica e tecnica, per evitare una ripetizione fastidiosa a fronte di ripetizioni volute.
In origine, le prime tele erano in scala di neri e in scala di bianchi. La conversione al colore è stata in opere successive, quando le singole tele hanno cominciato a divenire sequenze: un modo di procedere random, in cui non manca mai l’aspetto ludico, inteso come piacere profondo nel costruire l’immagine, su cui un colore densamente colato fa il resto.
Il colore non media, rappresenta quel divertimento che nutre l’ispirazione dell’artista: Franzosi ama giocare con la pittura come approccio immediato, lo ha sempre fatto da writer nei graffiti, che rimangono la via parallela e inesausta della sua produzione. Il colore della Negazioni è, dunque, una risposta tecnica e immediata: le colature che coprono i contorni e muovono lo sfondo rispondono al gioco con la ripetitività e offrono modi infiniti di rappresentare un unico soggetto.Una stessa modella può divenire un ciclo pittorico a catena di montaggio: l’artista sceglie e appresta il set di colori per il fondo e li cala sulle tele.
Da lì decide le tinte da seguire in palette, con un approccio che egli stesso dichiara randomico e umorale, procedendo a volte per nuance, a volte per contrasto. Pensate ad incastri, le Negazioni coprono ora quasi tutte le scale cromatiche, un puzzle a color field painting, la pittura a campi di colore che fu l’espressionismo astratto di Mark Rothko. Espressioniste senza astrazione, invece, le tele “negate” si prestano a strati differenti di lettura, da sole e moltiplicate, investendo la dignità pittorica della singola rappresentazione nell’organicità di visione di una posa riecheggiata enne volte. In un montaggio da allestimento, le Negazioni diventano Negazione, e cambiano, solidificandosi in nuvole di colore che si assemblano e offrono un’esperienza percettiva inattesa, ma organica ed equilibrata.
Una mostra di Andrea Franzosi è un viaggio immersivo nella creatività più incalzante, espressa anche in altri casi attraverso l’elaborazione in serie di un medesimo soggetto. Alcune di queste sequenze hanno avuto origine con l’origine stessa della pratica artistica e costituiscono, per questo motivo, una delle linee di storicizzazione e lettura della sua creatività.
Da qui il senso di una scelta espositiva a carattere tematico.
La mostra di Garbagna del giugno 2025 è la prima a tema Negazioni. E quindi è una Negazione dove le nuvole cromatiche di tele definiscono un percorso percettivo di grande impatto, pensato per l’occasione come un’esperienza totalizzante: Marco Gilardone e Andrea Saidu ne hanno prodotto, infatti, una trascrizione in musica arricchendo l’esposizione di tracce che, ispirate dalle opere, ne accompagnano la visione. Negazione è stata trasformata, dunque, in happening, ulteriormente arricchita come esperienza percettiva da un’azione teatrale musicale.
In questo modo, la mostra diventa un collettore di sinergie emotive che coinvolge il visitatore in un’esperienza inedita, un copione non scritto e mai uguale a se stesso dove tutto sta insieme in un nuovo equilibrio.
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